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Graziano Negri

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Alessandro Del Puppo2014

La città, o meglio il villaggio, dove era nato Graziano Negri oggi si chiama al-Zahrā. È a una quarantina di chilometri da Tripoli. Quando Graziano vi nacque, nel 1957, si scriveva ancora Azzahra. Al limite del deserto libico, il regime ci aveva tirato su nel 1938 una “città” coloniale, in schietto stile mediterraneo fascista. Graziano ci scherzava. La luce che entra nello studio a Cesarolo, infima provincia di Venezia; quella luce della bassa o bassissima pianura veneta, con tutta quella sabbia intorno, un po’ gli ricordava i luoghi natii. 

Graziano non ebbe una formazione artistica regolare. Al rientro della famiglia dalla Libia, si diplomò ragioniere; frequentò sporadicamente i corsi di storia dell’arte tenuti da Giuseppe Mazzariol a Ca’ Foscari. Sopratutto, disegnò e studiò per proprio conto. Era un lettore appassionato: di letteratura, di poesia, di filosofia. Non fu mai il genere d’artista che “legge” soltanto saggistica d’arte (quando va bene), oppure le riviste illustrate con le pubblicità delle gallerie. Frequentò invece a lungo, con pazienza e perizia, le opere degli antichi maestri. Ne ricavò studi e copie, di ammirevole qualità, che mantenne sempre con sé, come un segreto da condividere con pochi (a casa sua c’era una copia della Tempesta di Giorgione. La sola idea di provarci a copiarla m’impressionava, gli dissi una volta). Le tracce di questa passione si possono leggere, in controluce, attraverso i titoli di certi suoi quadri: omaggio a Paolo Veronese, a Rembrandt, a Caravaggio, a Giorgio Morandi. Non di rado, Graziano amava incollare sul telaio delle tele più importanti la fotografia di un’opera d’arte del passato, strappata da chissà quale volume. Girando poi i quadri, ho potuto rintracciare, quasi à rebours, i luoghi dove il suo sguardo si è posato più a lungo. Tiziano, El Greco, Vermeer, Watteau, Goya. Nomi che possono apparire lontani dal suo lavoro pittorico soltanto a coloro che ritengono l’arte astratta avulsa dalla storia. Naturalmente non è così, e Graziano lo sapeva.
Si guadagnò da vivere con un lavoro impiegatizio: la metà della sua vita. Verso la fine degli anni Ottanta, Graziano iniziò a presentarsi al pubblico con prime apparizioni in mostre collettive. Lavorava su enormi tele di juta o su grandi fogli di carta: minime scansioni compositive, oppure segmenti colorati semplici e bilanciati. Venne subito notato da Valentino Turchetto, che diverrà il suo gallerista d’affezione. Presso la Galleria Plurima, dapprima a Udine e poi a Milano, Graziano monterà non meno di dieci mostre personali, in poso più di vent’anni di collaborazione. La sua iscrizione nel novero di quella nuova generazione d’autori che si stava ponendo sulla scia della veneranda pittura “analitica” degli anni Settanta avvenne con regolarità, per tappe progressive. Con quella tranquillità, direi, che è garantita da un decorso lavorativo paziente, attento, mirato. Scrivevano di lui critici affezionati e competenti: Giovanni Maria Accame, Giorgio Bonomi, Claudio Cerritelli. A volte erano veri e propri dialoghi, dove non si parlava, come è ovvio, di sola pittura – ma si giungeva infine a essa, attraverso riflessioni, tribolazioni, perplessità. 

La costante del lavoro di Graziano si può cogliere in un tema pittorico che ha portato come titolo ricorrente Eponimo. La struttura prescelta era piuttosto elementare, ma le varianti disponibili erano numerose. Il controllo di queste possibilità divenne la ragione stessa del lavoro di Graziano. Datasi una regola, stare dentro i limiti, verificarne le opportunità. Evitare come la peste soluzioni seriali. Scansare l’autocompiacimento. Credo sia stato questo il dramma creativo di Graziano.

Il grado di soddisfacimento per il lavoro compiuto era ammirevolmente basso. La facilità del risultato era soltanto apparente. In realtà, era frutto di un’operazione lunga, e di lunga meditazione. (Ogni tanto, mi diceva, prendo quella poltrona arancione e mi metto lì, davati al quadro appeso al muro, e lo guardo. Ci sono volte che per un intero pomeriggio, in studio, non faccio nient’altro). Molte le opere scartate. Chissà quante quelle distrutte, quelle nemmeno mai iniziate. Quelle solo pensate. Se il processo creativo è costante, la risoluzione è ben più rara, e ancor di più l’ostentazione. Se mi è concesso un termine retorico, ritengo tutto questo una forma di moralità.

Il resto credo si possa raccontare così: per dieci anni, almeno, il processo degli Eponimi e dei suoi derivati ha previsto variazioni nella natura del supporto (tela, ferro, carta, legno), del tipo di pigmento (olio, resine, vernici alchidiche) e di formato (più o meno ampio, e con un ragionamento sulla dialettica orizzontale/verticale su cui sarebbe bene, un giorno, provale a dire qualcosa di più. Mostre in Italia, un po’ ovunque, e qualche passaggio nell’Europa che conta: Parigi, Colonia. 

Nel 2001 Graziano avvia un ciclo intitolato Rose del mio giardino. Sono polittici in metallo, con stesure di un’incredibile varietà “botanica”. Graziano prova a cogliere il colore delle rose, e ci riesce. È un ciclo di grande felicità visiva, il mio preferito. (Ma come non pensare oggi ai versi di Malherbe? “Rose, elle à vécu ce que vivent les roses / L’espace d’un matin”). 

Alle Rose s’intrecciano nuovi Eponimi, dove si affrontano tonalità bizantine, non si temono colori caramello, e nei titoli si sfida la celia; si giunge a un’inedita piacevolezza ottica, a un “cantato” libero, alto, disinibito. Segue il ciclo delle Perle, giocato tutto sul bianco distribuito sopra il zinco rilucente.
Nel 2010 facciamo insieme una mostra per ricapitolare vent’anni di lavoro. E intanto Graziano sta già pensando alla Pittura in Bosco. Non lo sa ancora nessuno. Graziano mi avverte a lavoro quasi ultimato. Vieni a trovarmi in studio, mi dice, devo farti vedere questa cosa. Sono partito dal Galateo di Zanzotto. Ho fatto trenta tavole dipinte. Si sono asciugate, e ora ciascuna è dentro la sua bella scatola di cartone. Stanno tutte lì, ben allineate. Non hai idea di quanto mi sia costato, mi dice; e non si riferiva soltanto al costo dei materiali. Ma io questo non potevo saperlo. Poi Graziano ci ha lasciati, in un giorno di Maggio. 

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